Tra storia millenaria, siti UNESCO e tante ferite aperte, il Khuzestan iraniano, sotto i riflettori per essere una delle province più inquinate del Paese, ti lascia un segno.

Situato nella parte sud-ovest dell’Iran al confine con l’Iraq e il Golfo Persico, il Khuzestan non è solo una delle regioni più inquinate ma anche tra le più ricche di petrolio, e questo, più la sua posizione strategica, ne ha fatto una delle province più colpite durante la guerra Iraq-Iran. Oltre all’appetitosa abbondanza di risorse naturali, come le altre province iraniane anche il Khuzestan custodisce un ricco patrimonio di tradizioni e usanze.
Essendo maggiormente abituata all’Iran delle località più turistiche come Isfahan, Yazd o la stessa Teheran, quando ho attraversato la linea immaginaria che divide la provincia del Lorestan con il Khuzestan, ho subito avuto l’impressione di varcare la soglia di un altro Paese. Regione con una importante comunità di arabi iraniani (secondo il Britannica il suo antico nome era addirittura Arabestan), finora questa è la sola provincia dove ho visto donne indossare il niqab, cioè una abayah che copre anche il viso e con solo un’apertura all’altezza degli occhi, che in realtà in Iran dovrebbe essere illegale.
Con i primi insediamenti che sembrano risalire a 6,000 anni prima di Cristo e primi nuclei urbani a 4,000 anni a.C., il Khuzestan era il cuore dell’impero elamita che stabilì la sua capitale a Susa, antica città oggi dichiarata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO.
Come spesso succede quando mi appresto a esplorare un luogo nuovo, le presentazioni avvengono davanti a qualche sito storico, e così è stato anche per il Khuzestan, una delle regioni più difficili tra quelle che ho visitato finora in Iran.

Millenni di strati storici è quello che accoglie i visitatori non appena varcano la soglia di questa provincia sui generis che la gente del posto ama descrivere come culla della civiltà, dove tutto ha avuto inizio, anche se, a dire il vero, i residenti di tutte le province iraniane dicono la stessa cosa della propria regione. Ma questa è un’altra storia, che probabilmente merita un articolo a parte.
Portando sulle proprie spalle il peso di una storia secolare, con tanto di reperti che ce ne parlano, del Paese e delle sue diverse dinastie e civiltà, dall’impero partico ai persiani, Susa è ricca di scavi archeologici che rivelano strutture urbane antiche ed efficienti che contemplano anche edifici importanti, alcuni dei quali sono stati identificati nientemeno con i palazzi dei re achemenidi Dario il Grande e Artaserse, e con il palazzo di Ardeshir.
Per quanto ricca, tuttavia, Susa non è il solo sito UNESCO che il Khuzestan può vantare. Non lontano sorge infatti l’antica città di Choga Zanbil, originariamente Dur Untashi, costruita nel 1250 a.C. sotto il regno del governatore elamita Untash-Gal, un altro di quei luoghi a cui la gente del posto si aggrappa per rivendicare lo status di fondatori e creatori della civiltà dell’intera regione mediorientale.
Conquiste, guerre e invasioni definiscono il passato tormentato della regione, e qui, forse più che in altre province, si respira un’aria di irrequietezza.

Probabilmente è proprio la vicinanza del confine con l’Iraq, Paese a cui dalla relativamente recente guerra Iran-Iraq qui ci si riferisce, sia nella parlata sia negli stessi segnali stradali, con il nome di Karbala (کربلا), la città irachena santa per gli sciiti in quanto luogo del martirio dell’Imam Hussein e del suo mausoleo funerario, che rivela questo carattere ribelle e turbolento della regione.
“Non potrò mai dimenticare i tempi della guerra,” mi ha detto Zohreh, guida turistica del Khuzestan, alla fine del nostro giro archeologico. Non ci è voluto molto a entrare nel discorso, a farmi raccontare i suoi ricordi e a sentirne il dolore sempre vivo e presente nella vita di tutti i giorni.
“Una mattina ero a scuola, facevo le superiori,” ha iniziato a ricordare, contraendosi ad ogni rievocazione, “e a un certo punto un bombardamento iracheno ha bloccato la porta della nostra classe impedendoci di uscire e scappare. Ho pensato che quella sarebbe stata la nostra fine, ci siamo nascosti dietro un muro e abbiamo sperato in un miracolo. Quando il miracolo è arrivato e qualcuno è venuto ad aprire la porta ci siamo tutti buttati fuori dall’aula e la scena che si è presentata davanti ai nostri occhi è stata quella dei piccoli corpi straziati dei bambini che giocavano nel cortile dell’asilo. Erano stati loro le vittime principali in quella mattina maledetta, pezzi dei loro corpi erano disseminati per tutto il parco giochi. Sono passati trent’anni ma la notte ho ancora gli incubi.”
“Mio zio è un martire di guerra,” ha aggiunto Ali, giovane arabo iraniano mentre ci dava il benvenuto nel mozif della sua famiglia, struttura tradizionale simile a una capanna dove le famiglie accolgono i loro ospiti con l’immancabile tazza di tè, nel paesino di Bardiyeh.

Quando Saddam ha invaso l’Iran nel 1980 sperava di poter contare sulla forte solidarietà tribale che, secondo lui, avrebbe spinto la comunità araba del Khuzestan a unirsi alle sue truppe contro il regime dell’appena nata Repubblica Islamica. Non c’è voluto molto, tuttavia, per Saddam a capire che aveva fatto i conti senza l’oste. Gli arabi iraniani si schierarono subito e inequivocabilmente in difesa di quello che consideravano il loro Paese, l’Iran, sotto attacco da chi fino al giorno prima era loro vicino di casa e adesso uno straniero da cui guardarsi le spalle. La repentina offensiva irachena colse tutti impreparati nel Khuzestan, una delle prime regioni a essere presa di mira, quindi gli abitanti non poterono fare altro che improvvisarsi in rudimentali strategie di guerra prima che l’esercito iraniano li reclutasse ufficialmente.
Allo stesso modo, Saddam mostrò poca o nessuna simpatia etnica per quelli che poco prima considerava legati agli iracheni da uno spirito tribale di fratellanza e in men che si dica il suo esercito iniziò a radere al suolo intere città per permettere una visuale migliore per la sua avanzata, bombardando e contaminando l’intera regione con mine antiuomo e armi chimiche mortali. Com’era da prevedere, questa strategia mortale ebbe un duplice risultato: un rancore in rapido aumento nei confronti della vicina nazione araba e una rapida crescita di consenso intorno alla figura paterna dell’Imam Khomeini.
Ogni famiglia nel Khuzestan conta uno o più membri tra le vittime della guerra Iran-Iraq, le ferite tutt’altro che guarite.

Comunicando orgogliosamente nella loro lingua, l’arabo, le donne che procedono a passo lento ma deciso nella loro abayah (indumento largo che copre fino alle caviglie, in genere di colore nero), gli uomini con la keffiyeh, tipico copricapo molto usato nei Paesi arabi, sia a Shushtar che ad Ahvaz si respira un’atmosfera diversa rispetto ad altre città iraniane. Da una leggenda, subito rivelatasi proprio questo, solo una leggenda, di una generale ostilità verso gli stranieri, a una presenza maggiore di uomini che lavorano in mercati e negozi a contatto col pubblico, fino a sentirmi un milione di occhi incuriositi addosso, soprattutto dopo aver capito che non ero iraniana, avventurarmi in questa regione è stato sicuramente più impegnativo e stimolante del normale giro turistico.
Sebbene non l’avessi programmato, sono capitata in Khuzestan proprio prima di Arbaeen, la cerimonia a cui partecipano i musulmani sciiti a Karbala per commemorare il martirio dell’Imam Hussein, nipote del profeta Maometto, avvenuto nel 680, in seguito a quaranta giorni di lutto e celebrazioni che iniziano con Ashura, il decimo giorno di Muharram.

I pellegrini iraniani raggiungono Karbala a piedi ogni anno, e più ci siamo avvicinati al confine, più pellegrini abbiamo incontrato, più tazze di tè ci siamo visti porgere nei diversi mozif improvvisati ai lati della strada proprio per dare ristoro agli iraniani in pellegrinaggio.
Cerimonie che simbolizzavano il lutto, canzoni, preghiere che sembravano lamenti di dolore, stravaganti e sanguinosi spettacoli teatrali hanno definito il mio primo impatto con il Khuzestan, una delle zone più conservatrici che ho visitato finora in Iran. Un senso di appartenenza, un forte sentimento religioso che si respira dappertutto, una esuberanza di microcosmi in conflitto ma complementari tra loro e stratificazioni di aspettative sociali fanno del Khuzestan una regione impegnativa non solo per me che vi ho passato solo qualche giorno, ma soprattutto per il governo iraniano che deve venire incontro alle esigenze e alle pretese di tutti i suoi gruppi etnici.

“Siamo tutti arabi, siamo tutti fratelli,” mi ha risposto Ali quando gli ho chiesto se provassero del rancore nei confronti dei loro dirimpettai, quelli che dopo aver pregato insieme gli si sono scagliati contro per poi tornare amici come prima dopo qualche anno, quelli che vivono a pochi chilometri di distanza e che neanche troppo tempo fa hanno scagliato bombe contro la casa di chi oggi offre di nuovo loro il tè condividendo i momenti di preghiera. Alcuni non lo capiscono, altri sì, di sicuro non è semplice chiacchierare con chi vent’anni prima è stato causa della morte di tuo fratello, ma “cos’altro possiamo fare?”, ribatte Ali.
Questo è il tipico momento in cui qualsiasi cosa si dica è sbagliata, quindi la cosa migliore che si può fare è ascoltare, che si capisca o no, che si approvi o no. L’unico pensiero che tutti condividiamo è sempre lo stesso, l’assurdità della guerra che nessuno vuole mai.

È stato fantastico leggere gli articoli. Il mio grande desiderio di visitare l’Iran si è rafforzato. Speriamo sia al più presto. Grazie per gli articoli e le foto