“Khosh amadid be Afghanistan, benvenuta in Afghanistan,” con queste parole mi ha accolta un sorridente poliziotto del confine facendomi cenno di entrare nel Paese. Eravamo appena sbarcati che la prima donna in burqa della mia esperienza afgana mi è passata davanti. “Sono ancora tante quelle che lo indossano?” ho chiesto a mio marito, un po’ temendo la risposta.
“È una lunga storia,” è stata la sua replica, accompagnata da un sorrisetto che non aveva niente di rassicurante. Tra tutte le destinazioni che avevo visitato, questa era la mia prima volta in una zona di guerra. Viaggiare in Afghanistan era da tempo un mio sogno, ma sicuramente non è argomento semplice da affrontare, né tantomeno da consigliare ad altri amanti di viaggi e avventure.
Viaggiare in Afghanistan, un’idea così malsana?
Appena sbarcati, ci siamo precipitati giusto in tempo all’entrata del volo per Herat, città natale di mio marito e la mia prima reale esperienza di vita in Afghanistan.
Dal taxi verso casa ho cercato di osservare più che potevo la vita cittadina. Erano anni che sognavo di visitare l’Afghanistan, e finalmente ero lì. Dal finestrino, Herat aveva l’aria dell’ordinaria città asiatica: motorini rumorosi e traballanti che sfrecciavano da ogni parte, spesso con tre o anche quattro passeggeri, rigorosamente senza casco, le fioche luci dei negozi ancora accese, macchine anni ’90 che passavano come in una cartolina vintage, incuranti dei già rari segnali stradali. “Adesso sì che mi sento in Asia,” mi sono detta, ricordando il traffico iraniano e indiano.
Il primo indizio sulla rigidità nella relazione tra uomini e donne si è palesato quando mio marito ha chiesto all’autista di fermarsi vicino a un venditore ambulante di frutta: è sceso anche lui dalla macchina e non è risalito fino a quando mio marito non è tornato con i fichi freschi più dolci e succulenti che avessi mai assaggiato.
Le prime ore dall’arrivo a casa, confortate da litri di tè, frutta secca e dolci con la famiglia, sono trascorse in maniera così tranquilla e senza intoppi da farmi persino dimenticare dove fossi. Per fortuna, il mio primo giorno a Herat me lo ha ricordato alla svelta.
Al momento di uscire di casa per la nostra spesa quotidiana, ho chiesto a mia suocera se il mio abbigliamento iraniano fosse sufficiente e adeguato e lei, dopo essersi assicurata che le lunghezze coprissero abbastanza, mi ha subito dato la sua benedizione.
Per pentirsene appena mezz’ora dopo quando i negozianti del bazar hanno iniziato a puntare il dito sul mio scandaloso abbigliamento, a cercare di parlarmi, e a dibattere sul declino della società causato dalle donne. Quando il giorno dopo ho indossato il chador, sono automaticamente diventata invisibile.
È così che ho capito, in maniera piuttosto brusca, che sebbene Herat si trovi a solo un’ora di macchina dall’Iran, il tipo di abbigliamento è decisamente diverso, e che se proprio non vuoi infilarti sotto un burqa, solo un chador o una tunica fino ai piedi sono considerati accettabili.
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Impersonare la perfetta moglie afghana
Mia suocera non incarna esattamente l’idea della classica moglie afghana, e non mi ci è voluto molto per capirlo. Oltre a questo primo incidente, in molte altre occasioni ha mostrato poca o nessuna pazienza verso il bigottismo e l’ipocrisia di gran parte dell’universo maschile.
Indipendente, con una spiccata indole per gli affari (ha fondato da sola una lotteria settimanale per donne che ha raggiungo almeno 300 entusiaste partecipanti) e socialmente molto attiva (è possibilmente la persona con più inviti a matrimoni ed eventi in tutta Herat), dedica gran parte della sua giornata ad aiutare persone che hanno bisogno in qualche modo (in Afghanistan non è difficile trovarle), per spegnere il cellulare solo a fine giornata quando non ha le forze per rispondere alle chiamate che arrivano senza sosta.
Calarmi nel ruolo della perfetta moglie afghana era, in effetti, la mia strategia per arrivare dove agli stranieri non è consentito. Giornalisti e fotografi stranieri non hanno vita facile in Afghanistan. Per ovvie ragioni hanno sempre bisogno di un autista e/o guardia di sicurezza, e qui ho capito che il mio viaggio sarebbe stato diverso.
Per le donne che vogliono intraprendere un viaggio in Afghanistan è sempre un azzardo, soprattutto se viaggiano da sole, ma io ero determinata di portare avanti la mia missione: scavare nei meandri della società afghana, capire come gli afghani vivono, come organizzano le loro giornate, il lavoro, il tempo libero e tutti gli aspetti della vita quotidiana. Incluso il matrimonio.
In realtà, il mio matrimonio è stato una vera e propria rivelazione in termini di usi e costumi locali e retaggi tribali. Malgrado il mio poverissimo persiano, ho potuto capire che il primo mullah a cui ci siamo rivolti si è rifiutato di celebrare il matrimonio perché i miei genitori non erano presenti e lui non era sicuro avessero dato la loro benedizione.
Mia suocera ha iniziato a imprecargli contro insulti e accuse di ogni tipo, dalla corruzione al non essere un vero musulmano, ma niente sembrava efficace, neanche dirgli che avevo raggiunto la maggiore età da un bel pezzo. In realtà, sebbene sia possibile che attendesse qualche piccola tangente, è forse più probabile che il povero mullah non volesse assumersi la responsabilità di approvare un matrimonio tra un locale e una straniera potenziale vittima di rapimento. In tutta quella confusione, avevo in effetti un’espressione abbastanza contrariata.
Comunque, qualche giorno e mullah dopo, siamo riusciti ad accasarci. Proprio quando iniziavo a pensare che tutto il processo stava volgendo al termine, mi sono dovuta ricredere. Prima di registrare il matrimonio in tribunale ci aspettavano un paio di altri passaggi.
Passaggi che altro non erano che una serie di persone che dovevano firmare e approvare la nostra unione, tra cui il cosiddetto “signore del quartiere”. Il cosa? Proprio così, il signorotto del villaggio responsabile che tutti i residenti del “suo” quartiere si comportino in modo opportuno, cioè che seguano i princìpi islamici.
Siamo stati accolti dal figlio che ci ha introdotti in casa attraverso un ampio giardino, poco curato ma dalle sembianze che richiamavano una passata rigogliosità. Nella dimora, semplice, disadorna e buia, l’ambiente era ravvivato solo dall’onnipresente tappeto decorato con motivi floreali e naturali che rappresentano un pezzo di paradiso privato, come vuole la tradizione persiana.
Il nostro piccolo e smilzo signore del villaggio non si preoccupava minimamente di nascondere i suoi sospetti nei nostri confronti, incrementati dal fatto che io non parlassi persiano. Nonostante i dubbi, ci ha accolti sul suo tappeto per offrirci il tè e i biscotti delle grandi occasioni e, alla fine, ci ha dato la sua benedizione.
Ora, lo stesso matrimonio è degno di nota. Dimenticatevi il vestito bianco, ore sotto il trucco, parrucchiere, torta alta due metri e lussuosa limousine addobbata a festa. Il nostro primo, infruttuoso tentativo è finito con me, il mio futuro marito e il mio futuro cognato sfrecciando per le strade di Herat a bordo della stessa traballante motocicletta, mentre il giorno fortunato siamo avanzati di grado con una non proprio scintillante Suzuki 1992. Quindi, il vestito, vi chiederete? Un lungo, informe manteau nero coperto da un chador sempre nero. Una befana, come ogni altro giorno a Herat.
L’Afghanistan e le sue donne
L’Afghanistan è spesso definito il Paese più pericoloso al mondo per le donne, e sebbene molte delle donne afghane che ho conosciuto conducano una vita abbastanza serena, non è difficile percepire i diversi schemi sociali a cui sono soggetti uomini e donne.
In tutto ciò, il mio ruolo era un po’ un ibrido. Ero sì straniera, ma sposata con un afghano, quindi, in parte anche da me ci si aspettava di capire quale fosse il mio posto e di attenermi ai canoni silenziosi e impliciti secondo cui crescono le donne del posto. L’unico problema, nel mio caso, era che io non conoscevo le regole che in teoria avrei dovuto rispettare.
Fortunatamente, il ruolo di perfetta moglie afghana si combinava perfettamente con la mia strategia di sicurezza. Quando uscivamo e interagivamo con altre persone, mi limitavo ad annuire in silenzio e lasciar parlare mio marito, in modo da non far capire a nessuno le mia nazionalità (silenzio di cui probabilmente sentiva la mancanza una volta tornati a casa), e stavo sempre al suo fianco. A onor del vero, in più di una occasione mio marito ha sfruttato la mia appartenenza al genere fragile e indifeso per saltare la fila in banca e negli uffici.
Essendo donna, in molti posti la mia presenza non era gradita. A cominciare dalle officine per finire in alcuni bar e ristoranti, sono molti i posti riservati ai soli uomini. Allo stesso modo, sono molti i posti riservati esclusivamente alle donne, dove mariti e padri sono sicuri non corrano il pericolo di essere molestate o che nessun estraneo possa vedere un capello che trapela dal velo. Da donna sposata, avevo accesso anche ad alcuni posti in comune con gli uomini a patto di essere sempre scortata da mio marito, e allo stesso tempo ho mantenuto i miei “privilegi” di acesso a spazi per sole donne. Se si ha il marito giusto, in Afghanistan si può aspirare a una qualità di vita migliore, frequentare diversi ristoranti dove non si viene fissate quando si entra. Certo, se si ha il marito giusto, il che in Afghanistan non è così scontato.
Tuttavia, anche accompagnata da un marito, certi posti sono comunque tabù per le donne. Quando siamo andati al ristorante Armand a Herat, per esempio, ho notato che le famiglie e le donne sole erano confinate all’interno su tavoli o larghi divani circondati da tende.
Gli uomini, invece, potevano godersi il pasto nel bel giardino su divani (takht) che nella stagione invernale vengono coperti e scaldati. Questo è il motivo per cui a Herat abbiamo sempre preferito Qoqnos, un delizioso ristorante all’aperto dove tutti gli ospiti hanno hanno a disposizione ampi divani ricoperti da un tappeto e circondati da una tenda con riscaldamento in inverno, e dove possono passare una piacevole serata tra musica, parco circostante e piccoli ruscelli.
I ristoranti sono solo la punta dell’iceberg, visto che in Afghanistan uomini e donne sono separati in più di una circostanza. Tra matrimoni, aule scolastiche e lavoro, sono tante le occasioni in cui la socializzazione tra i due generi è considerata inopportuna.
I primi tentativi di una vita sociale in Afghanistan
Il nostro primo picnic di famiglia ha avuto luogo a Qala Sherbat, circa 40 minuti di macchina da Herat. Come gli iraniani, anche gli afghani adorano organizzare picnic e passare la giornata all’aria aperta, e proprio come gli iraniani, anche gli afghani arrivano muniti di tutto punto con thermos pieni di tè, pentole, piatti, bicchieri (del servizio buono, per capirci), posate, tovaglie (o meglio, sofreh, quello che usano per coprire il tappeto quando mangiano), e tutti i comfort possibili e immaginabili per sentirsi come a casa.
Trovandoci ancora nella provincia di Herat, anche qui indossavo il chador, come le altre donne presenti. Appena arrivati, mio marito ha subito detto di non sentirsi a suo agio. Era una zona che fino a qualche anno fa frequentava regolarmente per le scampagnate. In seguito, però ha cominciato ad arrivare e ad insediarsi nuova gente e, subito dopo, gruppi di ribelli armati sono seguiti a ruota. Adesso non è più un posto sicuro, per lo più riservato ai soli afghani, e invece eccomi qui.
Non ci è voluto molto per ricevere le prime avvisaglie che la mia distrazione nel lasciare cadere il chador dalla testa alle spalle non era stata ben accolta, o che si era notato che il velo non mi copriva abbastanza. Nonostante tutto, abbiamo apparecchiato il nostro sofreh e consumato il nostro pasto di kebab, riso allo zafferano in abbondanza, pane caldo appena sfornato e verdura fresca, il tutto conclusosi con fiumi di tè e deliziosi biscotti.
Intorno a noi vasti campi di grano dove uomini, bambini e donne delle tribù pashto da poco insediatesi lì lavoravano. Scattare fotografie non era permesso, come hanno chiarito senza possibilità di fraintendimento i bambini che hanno iniziato a lanciare sassi nella nostra direzione. A poco a poco, mio marito ha iniziato a sentire qualche mormorio che tra noi c’era uno straniero. Non sembrava troppo preoccupato quindi ho lasciato perdere: è solo quando l’ho visto caricare frettolosamente la nostra roba in macchina che ho capito che la questione era più seria di come pensassi.
Le città in Afghanistan sono fortemente militarizzate, checkpoint, soldati e servizi di sicurezza fanno parte del normale panorama urbano, ma è nei piccoli episodi quotidiani che si percepisce che il Paese è zona di guerra, e che lo è da decenni.
Vivere la guerra a Kabul
Sebbene Kabul sia leggermente più rilassata per quanto riguarda l’abbigliamento femminile (nella capitale potevo evitare almeno il chador), è anche una delle città più pericolose per terrorismo e attacchi. Camminando per le strade di Kabul è difficile evitare la vista di palazzi devastati dalla guerra, strade con buche che sembrano voragini ed edifici costruiti solo a metà.
L’eco delle notizie quotidiane non ti lascia mai in Afghanistan, e ammetto che a volte, soprattutto quando eravamo in aree sensibili come uffici pubblici, banche o anche centri commerciali, mi spaventava vedere qualcuno che si fermava all’improvviso o che aveva l’aria un po’ troppo “talebana”.
Una sera, rientrati nel nostro hotel dopo i nostri giri quotidiani, mio marito, come faceva tutti i giorni, scese per riempire il nostro thermos di tè. Dopo più di mezz’ora non era ancora rientrato, e siccome il venditore del tè si piazzava proprio di fronte al nostro hotel, ho iniziato a preoccuparmi che fosse successo qualcosa. Quando finalmente è tornato, come se niente fosse mi ha dato la notizia che l’NDS, il servizio di intelligence afghano, aveva avvisato la nostra reception che si aspettavano un attacco all’hotel alle spalle del nostro da un momento all’altro e che probabilmente il nostro sarebbe stato usato come base.
Sebbene fossimo in Afghanistan già da qualche mese, questo non era il tipo di notizie a cui mi sarei abituata facilmente. Mio marito, dal canto suo, non sembrava molto scosso, ma d’altronde, era vissuto in Afghanistan tutta la vita, aveva conosciuto la guerra civile iniziata dopo il ritiro delle truppe sovietiche, era sopravvissuto ai cinque anni del regime dei Talebani e si era infine ritrovato sotto le bombe dell’intervento Nato nel 2001, quindi immagino che la “possibilità” di un attacco non era sufficiente a fargli passare la voglia di tè e fichi secchi.
Nel giro di pochi minuti un intero film mi è passato davanti agli occhi: eravamo finalmente in procinto di tornare in Italia e i nostri piani stavano per essere sconvolti. Volevo fare i bagagli e andarmene, cambiare hotel, cercare un posto più sicuro, sempre che ci fosse. A un certo punto mio marito, con tutta calma, si è accorto che ero impallidita: “Ma come, hai paura??” ha esclamato sorpreso del mio disagio. “Non c’è niente di cui preoccuparsi, questi avvisi sono molto comuni, nella base ne ricevevamo diversi ogni giorno, ma alla fine ci attaccavano al massimo un paio di volte al mese!”
Se questa era la sua strategia per tranquillizzarmi, si è rivelata decisamente fallimentare.
Sono andata in Afghanistan con la consapevolezza che in qualsiasi momento potevo lasciare la zona di guerra e tornare a casa, ma per gli afghani non è così semplice.
Per quanto dura mi sia sembrata la vita in Afghanistan, non avevo ancora visto quanto fosse difficile per un cittadino afghano ottenere un visto per l’area Schengen. Anche quando il cittadino afghano è sposato con un’italiana.
Entrare in un’ambasciata a Kabul non è come entrare in un consolato in una qualsiasi città europea. A Kabul le ambasciate sono situate in una base ad alto livello di sicurezza, e prima di essere ammessi all’interno, nel piccolo spazio dedicato al pubblico e rigorosamente dietro appuntamento, ti ispezionano abbigliamento ed effetti personali un paio di volte.
La prima volta che siamo andati alla base, dopo essermi presentata come cittadina italiana, le guardie di sicurezza mi hanno fatto cenno di entrare perché sarebbe stato pericoloso per me rimanere all”esterno. Ma che sarei dovuta entrare da sola. “E mio marito?” ho chiesto. “Non lo conosciamo,” ha risposto la guardia. “Forse è suo marito, forse no!”
A questo punto, tutti i miei sforzi per incarnare il paradigma di perfetta, silenziosa e controllata moglie afghana sono crollati e sono andata in piena modalità italiana. Ho iniziato a ruggire (reazione forse inaspettata per le guardie, soprattutto da parte di una donna, sebbene anche le donne afghane sappiano come ruggire quando necessario, in particolare negli uffici pubblici) finché non ci hanno fatto entrare entrambi un paio di minuti dopo.
L’Afghanistan è uno di quei Paesi che ti assorbono completamente. La sua storia turbolenta, una società complicata, i suoi bambini spettinati e un popolo burbero e ospitale trasmettono un cocktail inebriante di sensazioni. Ci sono stati momenti in cui volevo andarmene, altri in cui pensavo di trattenermi più a lungo del previsto. Quando ci siamo imbarcati nel volo per Istanbul mi sono sentita in un certo modo sollevata, e adesso, dopo un anno di lontananza, non vedo l’ora di tornarci.
Bellissimo articolo per raccontare un’esperienza assolutamente straordinaria
grazie, per aver condiviso la tua esperienza di vita vissuta, certamente un’avventura, per fortuna non necessaria . Ho incontrato molti afgani in Iran, dove mi sembrano più raminghi che nomadi, e a me sono sembrati molto ai margini della società, e ai margini più bassi. Sono arrivato in Iran quasi per scommessa alcuni anni fa, e ci sono tornato 5 volte, per respirare sempre quel misto di amicizia e fratellanza (vivendo normalmente in famiglia) , come mi ricordano la mia infanzia tra i condadini del Veneto, i polentoni franchi e cordiali. Purtroppo la lingua, ma in Iran capiscono pizza e spaghetti e sorridono sempre all’Italia. Ciao.
Meglio stare a casa.
Sembra un bel posto…ora cerco un volo!